> Ringhiera, progetto e morte
La lucidità mentale che dona il lavoro manuale permette di acquisire una forte consapevolezza sui rapporti tra sé e mondo
"Via via che procedo le mie mani e i miei gesti riescono a sfruttare sempre meglio la propagazione del calore attraverso il metallo e grattano via la vernice sempre più rapidamente e accuratamente. Questo perché migliora l'interpretazione dei differenti spessori del ferro e dei suoi intrecci. E' un progresso tale da avermi fatto cambiare già due volte il modo di affrontare i riquadri della ringhiera proiettandovi piani d'azione che cercano di essere sempre più adeguati alla loro configurazione.
Ma so che prima o poi approderò al nulla e diverrò cosa, cosicché proprio adesso realizzo appieno quanto sia allettante il lenimento che prospetta il Dio che gli uomini hanno dovuto inventarsi".
Questo era il testo di un post Facebook del settembre 2014 che riassumeva i miei ruminamenti sui rapporti tra lavoro e pensiero emersi durante la ridipintura della ringhiera del balcone di casa. Sincopata perché in 'forma crasica' la scrittura accosta due aspetti e pensieri caratterizzati da tensioni differenti senza spiegare la loro concatenazione, quindi un vuoto che è colmo di implicazioni che è necessario spiegare.
Il tema generale è che attraverso il procedere del lavoro manuale vada ad evidenziarsi la forte incongruenza tra il nostro continuo, indispensabile e ineluttabile gettare avanti piani d'azione, che è qualcosa che caratterizza ogni ambito della nostra vita, e l'orizzonte del definitivo approdo al nulla. E ciò fa sì che il disporsi ad un sereno dissolvimento sia una delle imprese individuali più difficili. Pensiero quest'ultimo che di nuovo, per contrasto, fa risaltare la dinamica compensativo consolatoria che sta dietro l'invenzione umana di Dio.
Il fiorire e rimuginare su tali pensieri scaturisce dalla complessa ibridazione tra manuale e cognitivo che si realizza attraverso il lavoro. Non conosco altre attività che mi portino a pensare con tanta leggerezza e acutezza come quando lavoro con le mani. Si è infatti portati a riflettere sui propri procedimenti, sul perché e sul come procedere. Si ha una forte sensazione di verità legata ad una immediata percezione dei vincoli materiali, strumentali, d'abilità. Sebbene magari ci sia una sorta di 'allucinazione materialistica' è vero che l'io perde, se possibile, soggettività, come ci insegna anche Richard Sennett, imparando le necessarie misure dei gesti, le 'rivendicazioni procedurali' degli strumenti, la consapevolezza delle stanchezze, usure, o, al contrario, la gioventù e la duttilità dei materiali. E' insomma un uscire fuori da sé, a contatto con l'intimità della realtà materiale, che scaturisce dal fare trasformativo e conduce ad una singolare, intensa e lucida coscienza.
Inoltre, quando capita di lavorare manualmente soprattutto con fatica o difficoltà, almeno a me, capita di sperimentare un senso del limite che mi impone pensieri attinenti. Anzi, forse anche in senso un po' allucinato o stranito, mi pare di raggiungere una consapevolezza mai così piena e acuta dei limiti di possibilità di intervento manuale e concettuale sulle cose materiali e sulle mie idee e concezioni. E dunque sui problemi ultimi e fondamentali dell'esistere. Questa cosa mi spaventa sempre un po' perché al momento -e dopo- mi fa domandare quanto sia realistica e agganciata al mondo la mia percezione ordinaria. Un ulteriore aspetto, implicato ma non espresso nella prima riflessione è che - almeno nella nostra civiltà- la nostra azione trasformativa del mondo vive in una costante e ineliminabile proiezione progettuale del nostra fare e di noi stessi. Non a caso il Paradiso e la salvezza della mitologia ebraica e cristiana sono qualcosa che si guadagna. Il nulla dopo la morte spezza questo sogno e pone ai non credenti il problema di rimodulare la proiettività del sé in modo un po' più complesso e meno consolatorio.