> Torrine d'alabastro
Il primo incontro con una materia e una forma artistica
Per qualche mese, nella primavera del 1969, ogni qualche giorno inforcavo la mia bicicletta rossa per fare una commissione in paese, a Pontaserchio. Andavo al laboratorio di Bruno Marconato, a qualche centinaio di metri da casa a prendere il latte che serviva ad allattare mio fratello Daniele appena nato. E qualche volta succedeva anche che in casa di Bruno non avessero munto le mucche per tempo prima che lui andasse al lavoro, e allora dovevo pedalare per un paio di chilometri fino a S. Andrea in Pescaiola, dove magari trovavo il bottiglione già pronto, oppure dovevo aspettare che la mungitura fosse finita per tornarmene a casa. Ma sebbene la missione a lungo raggio in bicicletta, da seienne in solitaria, avesse le sue attrattive d’avventura, il più e il meglio stava senz’altro nella visita al laboratorio di Bruno.
Si arrivava nel cortile di questa casa un tempo contadina di via Buozzi e si entrava in quella rimessa per gli attrezzi dei campi che oggi la Goggle Car ritrae piena di ciarpame, pare. Allora lungo le pareti c’erano invece grandi blocchi di pietra grezza coi bordi un po’ stondati che le facevano sembrare come i massi dei disegni a fumetti, uno a fianco dell’altro, a destra e a sinistra formavano un corridoio che dall’arco d’ingresso conduceva in fondo allo stanzone, dove in pochi passi tutto diventava buio. In fondo, sulla sinistra, si salivano tre gradini e aperta la porta si entrava di colpo in un’altra dimensione. Una dimensione per prima cosa abbagliante, perché subito si dovevano strizzare gli occhi per quant’era insopportabile la luce, bianchissima, che pervadeva tutto insieme alla polvere, bianchissima anch’essa, che la spiegava. Tutto era così bianco che nel bottiglione sembrava quasi ci fosse del caffellatte. Quindi polvere ovunque: a terra, sul banco da lavoro, sugli attrezzi, sulle mensole e sugli scaffali dove erano allineate decine e decine di torri di Pisa di varie dimensioni e qualità di manifattura. Perché Bruno creava torri e torrine d’alabastro che poi si vendevano sulle bancarelle del Duomo. Le faceva di tutte le misure, anche se il maggior lavoro glielo procuravano le torrine da 8-10 com, quelle che mi affascinava vedergli fare veloce e preciso. Con la sua faccia rotonda, sorridente e contornata da una barba rossiccia troneggiava sul suo trespolo col flessibile in mano e in pochi minuti faceva una serie di buchetti uno a fianco all’altro, su certi punti segnati del cilindro d’alabastro, già tornito, che sarebbe diventato una torrina. Poi prendeva una molettina circolare, piccolissima, e torno torno, dall’alto in basso tagliava i diaframmi per congiungere tre o quattro buchetti e per formare quella che cominciava a sembrare un’arcata. E arcata dopo arcata completava un anello, poi passava di sopra e anello dopo anello la torrina era sgrezzata. Dopo veniva il lavoro più difficile ma anche affascinante, perché con una limettina a grana fine si dovevano spianare gli interstizi che formavano le arcate, si dovevano insomma lisciare le colonne. Era un lavoro di fino che richiedeva buona mano e tanta pazienza ma ti faceva anche scultore, perché subito imparavi a valutare la riuscita del tuo fare, coi dovuti parallelismi da creare, con costanze di spessore, costanze di profondità, omogeneità di levigatura, perché l’alabastro è tenero ma non è pongo e se levi troppo si vede subito e devi buttare via tutto. Era un lavoro che mi garbava e mi tirava così tanto che volevo provarmici a tutti i costi, sicché gira e rigira il buono e paziente Bruno mi dette una torrina fallata e una limetta promettendomi che se fossi riuscito a limarla per bene m’avrebbe preso a lavorare con lui. Col forsennato entusiasmo d’un bambino è ovvio che per giorni e giorni nel mio futuro non vidi altro che Torri di Pisa d’alabastro d’ogni dimensione insieme al sogno, ancora più grande, di poter costruire, anch’io, quello straordinario capolavoro che Bruno stava tirando su sopra un grande tavolo, anche quello polverosissimo, in mezzo alla stanza. Era un Duomo intero, alto una cinquantina di centimetri, su cui lui stava dando il meglio di sé. Con una grande qualità di riproduzione dei dettagli e dove componendo l’insieme attraverso l’aggregazione di un’infinità di elementi produceva qualcosa che imitava anche la manifattura dell’opera reale.
E più tardi, quando ho imparata qualcosa di più sulle arti, rimestando su quello che avevo visto tant’anni prima, mi è venuto da pensare che in un modello d’alabastro come quello l’uso di una pietra cerulea e traslucida potesse enfatizzare o mettere in luce meglio di quanto potesse il Marmo di San Giuliano opaco e ‘satinato’, quell’aspirazione alla leggerezza che è propria del complesso monumentale pisano. Perché, come si sa, in certi casi fortunati, nelle copie dei capolavori, talvolta anche in quelle un po’ dozzinali, possono trovarsi dettagli e aspetti che ci fanno capire qualcosa di più dell’originale. E in generale è comunemente condiviso che delle buone riproduzioni sono degli strumenti didattici e divulgativi utilissimi, per non parlare della loro capacità di far scaturire onesti ‘godimenti estetici’ di un’idea seppure da un mezzo surrogato. E d’altra parte tutta la nostra cultura artistica si forma per la maggior parte in questo modo.
Ebbene, oggi le torrine d’alabastro non si trovano più; senz’altro esse appartenevano più al dominio kitsch dei ninnoli che a quello delle buone riproduzioni d’arte, ma quali sono le qualità riproduttive ed estetiche delle riproduzioni della nostra Torre che oggi vengono propinate all’universo mondo? E non si potrebbe fare di meglio?