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22 set 2019 |  commento   
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> La prima volta sulla Torre di Pisa

Lo straniamento della località








Quando alla fine degli anni Sessanta il mio babbo mi portò sulla Torre di Pisa credo che non sapessi ancora leggere, anche se in qualche modo avevo già imparato qualcosa dell’alfabeto. Ricordo che mi tenne per mano tutto il tempo, a lungo ho conservato la memoria corporea della mia mano serrata nella sua, una morsa plasmata dalla prensione dei metalli, la mano d’un piaggista. Mi conduceva con cura e un po’ d’ansia, difatti agli affacci dei vari piani mi lasciava sporgere appena appena, trattenendo i miei slanci di curiosità per le arcate che tutt’intorno cadenzavano il vuoto.

Ma una volta arrivati in cima s’industriò di farmi riconoscere Pontasserchio nell’incastro tra il ‘Monte di Vecchiano’ (Spazzavento) e il Monte Pisano. Era la prima volta che vedevo dove fosse casa mia, così a distanza e dall’alto. Oggi direi che con quella veduta mi parve che prendesse concretezza qualcosa di ancora indefinito, uno spazio vuoto si riempì di specificazioni topografiche e d’altro tipo. L’estensione e la piattezza della campagna tra i paesi del Lungomonte e la città, la Torre d’Avane, Santa Maria in Castello a Vecchiano, gli alberi alti e frondosi del parco della Villa Prini che sovrastavano casa mia, appena fuori da quel recinto.

Là in cielo un pezzettino della grande estensione che mi circondava mi si rivelava nella sua oggettività. Mi stupivo di capire così precisamente il grande spazio che mi stava davanti, un mondo immenso per i miei pochissimi anni vissuti in un fazzoletto. Ero eccitato e forse la mia percezione era stranita anche dall’effetto del guardarmi intorno poggiato su un piano inclinato, con quella fantastica perturbazione dell’equilibrio che ne deriva, una sensazione unica, mai provata altrove.

A quell’impressione se ne aggiunse poi un’altra che in una certo senso le si contrapponeva. Accadde dentro l’’anello campanario’, dove girandomi intorno scoprì che i marmi erano fittamente ricoperti dalle scritte dei visitatori. Scritte vandaliche, sghembe, tracciate in fretta in tantissime lingue e alfabeti differenti. Scritture misteriose -tra queste degli ideogrammi orientali, i miei primi ‘dal vivo’- forse qualcosa in arabo o comunque in una grafia a me del tutto ignota. Una tappezzeria di grafemi variegatissima e straniante, che non parlava la mia lingua così come la quasi totalità delle persone intorno a me. Un insieme di cose che in quel momento mi dettero la netta sensazione di non essere a Pisa, ma in uno spazio indefinito, sottratto alla località, che poi ho capito essere tipico dei luoghi che sono patrimonio universale. Oggi capisco meglio come salendo sulla Torre mi fossi infitto nella mia terra d’origine e al tempo stesso avessi avuto sentore dell’alterità di quel luogo, anche se allora non capivo quel contrasto, ero solo eccitato dalla meraviglia.

Quando poi tanti anni dopo mio figlio ha raggiunto l’età oggi indispensabile per salire sulla Torre l’ho a mia volta portato e una volta in cima ho avuto la curiosità di tornare a guardare quei marmi che nel frattempo sono stati ripuliti a dovere, per fortuna si dirà. Però la curiosità di confrontarmi con quella vecchia impressione è rimasta frustrata. Chissà se un occhio d’etnografo ha scattato delle foto prima della ripulitura.





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