> Appeso alla maniglia
Dover scorrere le testimonianze
Nelle visite che ho fatto ai vari campi e sottocampi di concentramento, lavoro o sterminio nazisti mi è capitato fatalmente di attivare una stessa modalità di fruizione; qualcosa che è connaturato a quei luoghi e alle vicende umane che vi avvennero. Diciamo che non riesco a sottrarmi e anzi sento di dover ripercorrere o rievocare in me quei fatti attraverso tutte quelle descrizioni e illustrazioni per rispetto a chi le subì e a monito di ciò che l'umanità a cui appartengo è in grado di fare.
Perché in quei dettagli l'organizzazione dei campi, le procedure e i modi in cui si eseguivano le operazioni riassume e prende tutta la sua forza l'orrore che vi si perpetrò. Ecco allora il percorso a senso unico verso le camere a gas di Mauthausen, dove chi stava per essere gasato perdeva ordinatamente tutte le ultime parti di sé: protesi, abiti, capelli ed entrava nelle camere con le doppie porte, quella per entrare e quella da dove sarebbero transitati come cadaveri, con quest'ultima che aveva uno spioncino posizionato in modo adeguato a vedere quando era compiuto l'ammucchiamento dei corpi che si formava quando le vittime per trovare un refolo d'aria si calpestavano e s'accatastavano l'uno sopra l'altro. Oppure a Buchenwald il carro per il trasporto dei torturati dall'apposita baracca al Crematorium, carro che era tutto rivestito d'alluminio affinché attraverso le assi di legno non potesse gocciolare del sangue che avrebbe senz'altro allertato i prigionieri del campo. Anche se erano meticolosamente tenuti sotto la soglia di quei minimi nutrizionali che impediva loro d'avere quel minimo di forza ed energia necessari a ribellarsi.
Altrove ho scritto che proprio per come erano fatti anche se quei campi fossero scomparsi ciò non impedirebbe oggi di rendere leggibile e comprensibile le loro funzioni, a partire dall'esibizione di piante e alzati che dicono tutto il necessario di quanto quei luoghi fossero impianti industriali di sfruttamento e sterminio gestito in modo perfettamente sistematico. E nei vari campi visitati, insieme anche a vari artifici di attenuazione espositiva della tragicità dei settori, come ad esempio a Dachau dove quando in maggio lo visitai l'area dei forni crematori era piena di così tanti fiori da sembrare più che altro un giardino, ci sono gli spazi museali in cui i racconti si fanno più densi, dettagliati, lancinanti ed è più duro e difficile condursi come sento necessario fare. Son gli spazi in cui si realizza una sorta di 'chiasmo valoriale', perché ho avuto la sensazione -un po' inquietante devo dire- che gli allestitori museali (parlo di tedeschi e austriaci), nelle loro esposizioni mostrino la medesima meticolosità e sistematicità di ciò che raccontano. Lo fanno per dovere e coscienza e almeno a me hanno dimostrato come le stesse qualità umane possano produrre risultati con segni opposti.
Anche la prima immagine qui sopra, che si riferisce al momento in cui alla liberazione del campo di Buchenwald, quando i documentaristi dell'esercito americano filmarono lo stato degli internati, proviene da uno dei documentatissimi siti governativi tedeschi dedicati ai vari luoghi e impianti dell'industria dello sterminio nazista. L'ho ritrovata dopo ore e ore di ricerca in mezzo a migliaia di altre anche se non sono certissimo che sia proprio il frame che campeggia in grandi dimensioni alla fine del percorso del Museum di Buchenwald. Quando la incrociai la prima volta non ebbi la forza di fotografarla perché ero del tutto annichilito dal quel percorso e in un certo senso in quell'immagine trovai una specie di specchio. Infatti questo giovane uomo, e come lui anche quello che viene sostenuto della seconda immagine, si mostrano perché sentono probabilmente di doverlo fare, sentono di dover testimoniare. Stremato nel fisico e senza remore o pudore di mostrarsi seminudo lo sostiene il solo appiglio alla maniglia, e nella memoria dell'immagine che non presi ricordo una nudità più faticosamente celata, anche se quella del pudore, come è noto, era una delle prime perdite di chi entrava nei campi. Mi guardava dritto negli occhi e seppure non potessi minimamente paragonarmi alla sua sofferenza, mi specchiai nel suo sfinimento e, del pari, nella necessità e dovere di mostrarsi che si accompagnava al mio necessario dover percorrere senza risparmio quel percorso. Non lo fotografai anche perché non resistetti al pianto, necessario e irreprimibile, che quella prostrazione impone come misura di salute. Però superato il momento non scattai la foto perché mi sembrò come di prendermi una specie di cartolina, qualcosa di inautentico. Anche se dopo mi penti.