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gen 2022 |  commento   
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Gustave Courbet, Funerale a Ornans, 1849

Gustave Courbet, Funerale a Ornans, 1849







Un soprendente incontro con la morte


A Pontasserchio ormai i cherichetti (in italiano chierichetti) non ci sono più. Però un tempo in gonna e tunichetta si aveva spesso il primo incontro con la morte e questo era un’esperienza di vita fondamentale. Purtroppo la potevamo avere solo noi maschietti perché cherichette al Ponte non potevano essercene, e sebbene non fosse un’esperienza a cui un bambino aspirasse ardentemente per le condizioni in cui si realizzava costituiva un momento formativo importante.
Di solito a casa del morto si arrivava a piedi, in drappello col pievano. Lì giunti ci si fermava e un po’ scegliendo tra noi i più disponibili, un po’ ubbidendo al pievano che sceglieva tra i più grandicelli, uno o due entravano con lui per la benedizione della salma. A dire il vero non ricordo bene se si entrasse in più d’uno, come ho un vago ricordo che fosse, perché senz’altro un cherichetto doveva tenere la Croce, mentre un secondo non riesco a ricordare a cosa potesse servire, dato che il turibolo con l’incenso non mi pare si portasse e l’altro strumento - l’aspersorio - lo teneva il prete insieme alla stola e mi pare un libriccino di preghiere. Ma questo ragionamento spiega però bene come il ruolo del cherichetto fosse prettamente funzionale, il che in certe situazioni emotivamente impegnative della vita salva o risolve, come si impara poi più avanti.
Come che sia per un bambino che da poco ha raggiunto la consapevolezza dell’ineluttabile fine della vita stare di fronte ad una bara, specie se aperta, è una prova emotiva di un certo impegno. Ricordo che si entrava, e facendosi largo tra i dolenti si arrivava in vista della bara, di fronte alla quale ci si doveva andare a piazzare perché con la Croce si doveva starle ai piedi, e per non ricevere un’occhiataccia fulminante di don Otello si doveva stare attenti a rivolgere il metallico Cristo crocifisso verso la salma, ché le due cose dovevano stare una in vista dell’altra.
Uno dei motivi per cui il ruolo funzionale di cherichetto era pregnante stava nel fatto che non venivamo guardati come bambini; nessuno ci prestava attenzione e in una condizione che in genere era di neutralità affettiva verso lo scomparso si poteva guardare in faccia la morte e il dolore che provocava ai più vicini al lutto nella loro piena autenticità di quel momento ultimo di prossimità con la persona amata. Assorbiti nella funzione si vedeva senza essere visti e mentre ti sentivi bruciare le gote e ti si seccava la bocca potevi osservare come la morte trasfigura le persone e gli sforzi che si mettono per attenuarne gli effetti. Spicca l’abito buono del defunto e come egli sia composto in una postura quieta. Che paia dormire è la consolazione sussurrata da più d’uno e la figura incorniciata nelle pieghe dell’imbottitura di raso violetto o cilestrino rende meno crudo il contrasto del corpo da breve tempo esanime col profilo rigido e intransigente della bara.
Ora, se in generale la visione di una persona distesa introduce ad una dimensione di intimità, la ridotta altezza di un bambino ai piedi d’una bara acuisce la sensazione di una prossimità intima, dove rapidamente va a spiccare la percezione dell’immobilità e la sua durata e con esso il drammatico fantasma dell’approdo all’universo delle cose immote. E al proposito ricordo di un volta in cui mi s’impose una visione che -da fermissimo- mi fece sussultare perché un uomo molto anziano e col suo bel vestito nero aveva dei folti e bianchissimi peli che fuoriuscivano dal naso e che spiccavano contro il nero delle cavità nasali. In quell’attimo presi a chiudere ed aprire le dita dei piedi nelle scarpe a ritmo forsennato, mentre le tempie mi pulsavano alla vista di quei grossi peli abbaglianti e arruffati che strappavano il velo all’umanissimo tentativo di quietare la morte. Un’insopprimibile traccia di vita, una rivolta contro la fine.
Il breve rito funebre domestico si chiudeva con le ultime gocce schizzate via dall’aspersorio. Col pievano ci avviavamo all’uscita mentre lo Spinabella metteva mano al cofano della cassa. Dietro alle nostre orecchie tensione e commozione si acuivano mentre col calore del riaquistato favore del Sole si riprendeva fiato, vita e fanciullezza.

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